Vecchia Roma, sotto la luna nun canti più
Gli stornelli e le serenate de gioventù.
Er progresso t’ha fatta granne ma ‘sta città
Nun è quella che se vedeva tant’anni fa…
La canzone ‘Vecchia Roma’ risale al 1947, esattamente 60 anni fa, e chissà cosa penserebbero oggi gli autori scoprendo che i responsabili della viabilità hanno praticamente deciso di abolire i leggendari sanpietrini dalla pavimentazione stradale. Sui quotidiani tipicamente romani, come Messaggero, Repubblica, Tempo, è aperto un dibattito tra chi è a favore e chi è contro. I motivi che spingono ad asfaltare Via Nazionale (come già successo a molte altre strade centrali e non, come la Predestina e la Casilina) sono molti: quelli che i romani veraci chiamano serci hanno la peculiarità di dover essere impiantati a colpi di maglio in un fondo stradale sabbioso, al quale si adattano come un dente nella gengiva. Ne risultano strade morbide, leggermente ondose, che li lucidano quando piove e che hanno la peculiarità di ‘frusciare’ sotto i pneumatici, produrre buche che sono vere e proprie trappole per gli amanti delle due ruote e stroncare le caviglie delle malcapitate che indossino tacchi a spillo. Insomma, nei bei tempi andati della vecchia Roma, quando il traffico era leggero e i ritmi molto più rilassati, le strade di sanpietrini erano dappertutto, prodotti dai maestri serciaroli in varie misure, a seconda se dovevano pavimentare il fondo stradale, i marciapiedi, i gradini. E nessuno si sognava di lamentarsene perché sono, ancora oggi, molto più belli del più tecnologico impasto di asfalto. Sono lucidi, durissimi, lavorati a mano uno per uno, impiantati a mano uno per uno (anche se oggi esiste una specie di ‘battitappeto’ stradale che li compatta, una volta messi in posa), lisci e preziosi come i marmi dei monumenti di Roma, come il travertino… Ma tutto questo non basta. La loro superficie irregolare produce inquinamento acustico quando viene percossa da migliaia e migliaia di pneumatici frettolosi. Quando piove, una frenata brusca sul selciato di Roma è più pericolosa di qualsiasi effetto aquaplanning. Inoltre il fondo sabbioso che li sostiene non è fatto per reggere il peso delle auto e degli autobus, sempre più numerosi e pesanti, e finisce col deformarsi, creando buche che alla prima pioggia peggiorano. Questa è la situazione e, come spesso avviene, piuttosto che cercare una soluzione di compromesso che risolva il problema senza per questo venir meno ad una caratteristica peculiare di questa splendida città, si è pensato alla soluzione finale: deportare i sanpietrini in qualche lontana discarica (o in qualche residenza di lusso, come spesso avviene con i materiali di scarto delle città d’arte) e asfaltare tutto, per la quiete di coloro che vivono e lavorano a Via Nazionale, per la salute dei motociclisti e per la tranquillità degli automobilisti indisciplinati.
Ho inveito anch’io contro i serci romani quando mi è capitato di andare al centro, tutta in tiro e con i tacchi alti, ma il pensiero che spariscano immagini che sono ben salde nella mia mente mi rattrista. Chi di voi abita a Roma avrà presente l’infilata di Via Nazionale da piazza Esedra (o della Repubblica, che dir si voglia) giù giù fino a Palazzo Koch e alle palme della rotonda di largo Magnanapoli, in un’invernale nottata di pioggia, magari nel periodo delle feste di Natale, con tutte le luminarie che si riflettono sul selciato lucido come in un placido fiume di pietra che scorre, leggermente in discesa, verso la conca di piazza Venezia. E’ un’immagine che ho ben chiara e che non credevo avrei perso, altrimenti avrei scattato una foto per ricordare, a chi verrà dopo di noi, che ‘er progresso t’ha fatta granne ma ‘sta città nun è quella ‘ndo se viveva tant’anni fa’.
P.S. Volevo fare una precisazione che ha poco a che vedere con i sanpietrini. Ho lavorato per anni a contatto con i cosiddetti ‘paparazzi’ e voglio spezzare una lancia a loro favore, forse perché sono un fenomeno romano, forse perché sono dei grandi professionisti che lavorano moltissimo, in condizioni pessime e guadagnano molto meno di quanto si pensi. Per inciso il famigerato Fabrizio Corona non è MAI stato un fotografo, tantomeno paparazzo. Lui si limitava a sguinzagliare ragazzini alle prime armi sui luoghi dei suoi trappoloni per poi ricattare la gente. Lo sapevamo tutti, ma non potevamo farci niente… Quindi non chiamatelo paparazzo e non fate come i grandi giornalisti del New York Times che parlano di cose che non sanno e fanno di tutta l’erba un fascio indicando in Corona la fine della Dolce Vita. A parte che la Dolce Vita è finita da un pezzo, Corona con i fotografi c’entra come Melissa P. con i grandi della letteratura erotica (tanto per fare un esempio).
[ via laura et lory ]