di salato
Da piccola abitavo in una casina vicino San Pietro. Era prima della guerra e vivevo lì con mio fratello Damiano e mia madre, sempre affaccendata.
Il giorno che il fiume scivolò fuori era estate. Me lo ricordo perché mia madre riempiva sul tavolo bottiglie e barattoli di passata di pomodoro; decine e decine di tubi rossi in fila sul tavolo, e io mi chiedevo quando mai saremmo riusciti a mangiarli tutti, o se piuttosto lei non avesse in mente di mettere su un commercio.
Damiano era fuori a giocare con i bambini del rione. Nonostante piovesse da giorni era uscito perché diceva non ce la faceva più a restare dentro casa, ché gli sembrava di stare dentro un carcere.
Fu lui, quel giorno, ad entrare in casa zuppo come uno straccio e grondante goccioline sul pavimento di pietra, strillando che il fiume era uscito fuori e che tutte le famiglie del vicinato si stavano organizzando per andarsene. Aveva la faccia bianca e spaventata, e io mi sono accorta che sulle sue guance si confondevano in egual modo pioggia e lacrime, quasi avessero una densità diversa l’una dalle altre.
Mia madre finì con calma di chiudere le ultime bottiglie, poi con passo fermo uscì di casa dicendoci di non muovere neanche un passo finché lei non fosse tornata.
Non ci mise molto, passarono forse tre minuti.
Entrò correndo, ci strattonò le maniche trascinandoci fuori ed eravamo tutti bagnati dalla pioggia che dal cupolone rimbalzava su di noi, quasi trovasse simile gusto a battere sulla rotondità della basilica e su quella delle nostre teste.
Da quel giorno passammo quasi una settimana a casa di cugini di mio padre, che abitavano sui colli. Ci arrivammo dopo un viaggio lunghissimo col tram e poi a piedi, per i campi. Durante quei giorni aiutai nelle faccende di casa, feci amicizia con Lino, un porcello che aspettavano ingrassasse a dovere, e ogni giorno intrecciavo un braccialetto con delle sterpaglie dure e già belle secche.
Ne regalai uno anche a Damiano che invece si annoiava e gli cresceva la rabbia dentro di giorno in giorno, perché pensava a quanto si stessero divertendo i suoi compagni del rione a giocare nelle pozzanghere fino ad esser ricoperti di fango, ad andare vicino al Tevere per vedere chi fosse più coragioso e valente.
Finalmente poi venne il giorno in cui tornammo a casa.
Era arrivato un giovanotto dalla città a consegnare delle stoffe per zia, e ci informammo tutti da lui sulla situazione.
Pareva fosse tornato tutto normale, solo un po’ più sporco e disordinato.
– I sampietrini stanno sempre là signò, guarda che le pietre nun ze moveno mica, eh?
Il mattino dopo eravamo già in cammino e nel primo pomeriggio rivedemmo la nostra piccola casina. Io fui la prima ad entrare e quasi feci un balzo dalla sorpresa: il tavolo si era spostato quasi fosse stato trasportato volando da qualche fantasma in pena, e attorno a lui le decine di bottiglie piene di pomodori. Non se n’era rotta nemmeno una, l’acqua le aveva cullate dolci dolci per tutta casa, fino a posarle lievi sul pavimento in un balletto di pioggia e sugo.
[ via salato.splinder.com ]