Rivolto all’Assessore e ai giovani progettisti.
Sandro Ranellucci
[ da Archiwatch – Il Blog di Giorgio Muratore ]
Visto che ci siamo. Il problema della tenuta del Sampietrino non è neppure tanto in questioni di posa, in quanto quanto incredibilmente questa coincide con questioni di struttura del disegno. Il quale non è per nulla un fatto sostanzialmente formale. Come i più credono, ma come purtroppo credono anche numerosi progettisti.
Un’esemplificazione scolastica del paradosso sta in piazza di Pietra. Laddove il divorzio tra Roma e sampietrino si è definitivamente compiuto. Dal momento che i formati che lì compaiono riproducono solo in apparenza la trama dei solidi blocchetti che accompagnano la città da tanti secoli. Pochi si soffermano ad osservare che in realtà non si tratta solo dei tradizionali blocchetti grigi, ma anche di piastrelline tutte superficiali utilizzate solo per fare disegno. Mentre invece nel sampietrino la dimensione verticale è necessaria e strutturale. In quanto è un’adeguata superficie di aderenza con la sabbia e con le altre facce vicine che determina la condizione di solidità della posa. In effetti ad essere necessaria è la spinta tra un blocchetto e l’altro. Naturalmente se i blocchetti procedessero solo affiancati l’uno all’altro per file parallele finirebbe per risultare insufficiente la componente di spinta orizzontale che li lega. Di qui, dall’esigenza di determinare con la struttura di posa una componente centripeta in contrasto all’allentamento, nascono tutte le conformazioni formali che si trovano nei tratti di pavimentazioni rimasti più fedeli alle pose tradizionali.
Naturalmente i giovani architetti che sfogliano i cataloghi con le composizioni pre-montate per pannelli, quelli magari in cui un disegno a coda di pavone è addirittura posto in risalto da colori diversificati, sono indotti a ritenere che quelle conformazioni nascano da esigenze puramente estetiche. Mentre invece la posa a coda di pavone, ed anche quella con archi concentrici sono una necessità di tenere bloccati i cubetti interni alla campitura. In tal senso risulta sconsigliabile una posa libera con filari paralleli priva di una doppia cornice esterna del campo posta con i pezzi ad orientamento in diagonale. Su questa logica dei pezzi interni ad una campitura che necessitano di una cintura di contenimento per aree racchiuse, concepita per secoli per mantenere la stabilità delle pavimentazioni esterne, c’è da osservare molto anche uscendo dalla logica del sampietrino, e osservando i rivestimenti delle piazze toscane in laterizio a spina di pesce, disposto per aree concluse, dal che per l’appunto ricevono compattezza.
Piazza del Campo da questo punto di partenza finalizzata ad una solidità costruttiva riceve la fisionomia stupenda, al quale si aggiungono le esigenze di raccogliere le acque al centro nella porzione più bassa. Basterebbe agli architetti perdere una giornata a Piazza del Campo e a Sovana per capire tutto, in termini di rivestimento degli spazi esterni. E ad Alberobello, dove campiture ad anello di “chianche” mantengono la compattezza dell’area centrale al campo, quella nella quale robuste schegge di “pietra ficcata” mantengono una loro compatezza ad onta delle conformazione irregolare e del loro minor pregio.
Ma il progettista di piazza di Pietra ignora queste logiche formali strettamente connesse alla robustezza e ai destini di lunga durata delle pavimentazioni antiche. E “crea” laddove per creare occorrerebbe conoscere le regole del Mestiere, quelle che il Mastro conosce a memoria.
A Piazza di Pietra i sampietrini-pseudo (non dimentichiamo che ne esistono meno ingombranti di produzione cinese) oltre a non rispettare le regole dello spessore, non rispettano neppure quelle del formato. E quelle fasce nate per determinare controspinte di irrigidimento, una volta costituite da elementi spessi un paio di centimetri, sono incredibilmente ritagliate con le forbicine secondo andamenti diagonali. Così che le ultime della serie, appiccicate con il vinavil, non contengono più le unità interne al campo, ma neppure più se stesse.
E infatti tutto si distacca. Ma del resto gli odierni progettisti, non avendo mai nella loro vita stretto la mano callosa dell’analfabeta Mastro Zabaglia, capo nel cantiere di San Pietro, ma piuttosto sfogliato molte pagine (decine) di resoconti a paginone di opere di archistar, ritengono che i sampietrini stiano lì per essere ritagliati per trame a retino con andamenti bizzarri sul loro display, senza alcuna regola da rispettare.
Recentemente i progettisti, anziché aderire all’esigenza di incatenare sostanzialmente tramite la logica delle campiture i sampietrini, hanno ritenuto di contaminare la logica del tradizionale blocchetto romano con altre pezzature apparentemente maggiori di formato più libero, un po’ come si fa per avere effetti divertenti sulla parete della vasca da bagno.
Neppure la pavimentazione di piazza S. Ignazio rispetta la logica delle code di pavone (quelle vere) o dei riquadri. Costituendo l’inedito ellittico pavimentale un sostitutivo tutto formale, di nessun senso rispetto all’adesione dei sampietrini (ma fa fine). Il che non cambia in tante strade ad andamento longitudinale. Nelle quali il formalismo attuato non concorre ad alcun effetto irrigidente. Essendo esso stato segnato in quelle strade, con un paio di file a spina di pesce le quali, per non avere spessore adeguato, e per non sussistere la conclusione della campitura, finisce per determinare un’ ulteriore condizione di slegatura. Tanto più che nelle fasce esterne della strada il completamento, determinando un’ulteriore condizione di discontinuità, è realizzato con piastrelle venti-venti in diagonale di basso spessore e percio’ ulteriormente slegate. Il che determina il fatto che una stratificazione di sampietrini, la quale se concepita secondo le regole e lo spessore giusti, costituisce un effettivo rigidissimo solaio di pietra, se concepita di formati differenti, privi di una logica di fasce e campiture, risulta estremamente debole. Se si vuole attentare alla compattezza di una pavimentazione stradale in sampietrini notoriamente l’operazione da fare è quella di scalzare un solo sampietrino facendo leva verso l’alto ed estraendolo. Il che mina l’efficace equilibrio tra le componenti di forza orizzontali.
Per concludere vale la considerazione secondo cui un intervento di riparazione alla continuità dei contrasti, nel caso di formazione di una buca, è sempre possibile nel rispetto della logica degli equilibri di forza, e del cuci e scuci, mentre la riparazione per “toppe” di asfalto determina di norma esiti terribili e fallimentari in termini di ricostituzione della continuità.
Per quanto riguarda infine lo sketch dello scambio tra nastri d’asfalto veloci nel centro storico e isole di sampietrini in periferia per bellezza, crediamo che ci sia da arrossire al solo concepirlo per gioco.